Leggendo #172 – Heidi di Francesco Muzzopappa

Questo articolo è stato pubblicato su Cosebelle Mag.


A volte mi dimentico totalmente dell’esistenza dei reality show. Me ne ricordo solo in certe sere, quando accedo a Twitter,  e fra gli hashtag di tendenza trovo nomi che non comprendo, perlopiù titoli di talent show che non seguo e sfide all’ultimo fornello che non guarda neanche mia madre. Eppure la televisione, a volte, pare sembrare ancora la stessa cosa che era vent’anni fa, quella che raggruppava la famiglia, in salotto, con la differenza che oggi, seduti sul divano si è in tantissimi grazie a strumenti come forum online, conversazioni tracciate con hashtag e non metto mano sul fuoco sull’esistenza di gruppi Whatsapp a tema reality show.

“Lavoro talmente tanto che la mia vera me non la incrocio mai.”

Perché questa riflessione? Perché in Heidi di Francesco Muzzopappa c’è questo mondo e molto altro. Ci sono i milanesi imbruttiti, quelli che per bere un caffettino spostano la riunione, anzi il meeting, dalle 09:30 alle 10:30 che tanto dall’ufficio usciranno alle 21, minuto più minuto meno: tanto vale fare una colazione da 7 euro e poi piazzarsi davanti allo schermo del laptop. Il fatto, e in Heidi  è abbastanza chiaro, è che milanese imbruttito non ci nasci: ci diventi. Comincia con il pendolarismo, quando in stazione l’ansia del treno in ritardo ti preme sul cuore e sulla vita perché devi assolutamente salire sul vagone in corsa, accendere il pc e controllare le mail collegandoti dall’hotspot del cellulare aziendale. Con quest’ultimo romanzo, Francesco Muzzopappa tocca temi importanti con il suo tipico tono di voce leggero, ricco di giochi di parole e stereotipi,  diffondendo una risata di quelle che il mattino dopo, però, ci pensi ancora che alla fin fine stai ridendo anche un po’ di te stesso. Di tutti questi temi ne abbiamo parlato con Francesco, in una chiacchierata sui personaggi di Heidi (edito da Fazi Editore),su Milano e sull’ironia.

Diciamocelo, la prima domanda è soprattutto personale: davvero i reality show esistono ancora? Perché ancora oggi vengono guardati? Cosa ti ha portato a costruire un romanzo attorno a questo mondo che è di per sé già finzione?
Di quelli che ho scritto, Heidi è forse il romanzo in cui faccio più uso di parodia, in assoluto. Uno strumento perfetto se si vuole demolire qualcosa che percepisci come grottesco, ormai. I reality show esistono e, nonostante la loro crisi strutturale in tutto il mondo, in Italia hanno ancora il loro seguito, tra liti, isteria e personaggi in due dimensioni abilmente infilati in case e isole per scatenare tensioni. Il dato peggiore è che gran parte dei programmi televisivi viaggiano ormai su questo tenore, solleticando gli istinti più bassi dei telespettatori e mettendo in mostra i freak, più che i talenti. Un’inversione di tendenza rispetto alla tv che più amo. Non sono un fanatico del Dipartimento Scuola Educazione, intendiamoci, ma rispetto alla volgarità per la volgarità, a puro scopo estorsivo nei confronti dell’audience, ce ne corre.

Nel tuo libro c’è una Milano che si vede poco nei libri: i ritmi incredibili delle persone che ci lavorano, le richieste che non sono mai per domani, né tantomeno per oggi, ma ovviamente sempre e solo per ieri. È un’attitudine che hai trovato solo in questa città? Cosa ti ha spinto a raccontarla?
Vivo e lavoro a Milano da anni. Mi guardo intorno, parlo con la gente, sono io stesso “la gente”. In questo esatto momento in cui ti sto rispondendo, vedo dalla mia finestra una ragazza correre a perdifiato per prendere al volo un tram che passa ogni 4 minuti. Tra 4 minuti ce ne sarà un altro, per capirci, ma lei deve rincorrere a tutti i costi quello che sta passando adesso, è questione di vita o di morte, glielo leggi in faccia. È un grande formicaio, la Milano produttiva, abituata spesso a perdersi la vita vera per lavorare oltre l’orario di lavoro. Un alibi perfetto, talvolta, per eludere il senso della vita. Da autore di commedie, ho un’ottica troppo privilegiata per non raccontare quel che vedo, soprattutto quando sei cresciuto, come me, al sud, in cui i tempi sono più umani e gli autobus passano anche ogni 35 minuti, senza scatenare particolari scompensi cardiaci.

Arriviamo ad Heidie al mondo che hai portato su carta. Come sono nati i personaggi? Sono così stereotipati che sembra quasi di averli conosciuti eppure hanno tutti profili volutamente esagerati.
In Heidi si alternano personaggi realistici a veri e propri mostri. Basta guardarsi attorno per vederli. Faccio parte di quel genere di persone che prende appunti sulla gente che incontra, e ultimamente di “profili volutamente esagerati” ne vedo tanti, in carne e ossa. Mi interessava cucire insieme una storia di recupero emotivo tra padre e figlia, immersa in un mondo che sembra sublimare le emozioni, sostituendole con il lavoro totalizzante, fatto spesso da piccoli ricatti morali, machismo ultra-diffuso e superficialità permanente. Se siano sterotipi non lo so, mi limito a descriverli e segnalarli.

In Heidi si trattano anche dei temi molto delicati: l’orribile errore di imbottirsi di farmaci per sentirsi più forti (o dimenticarsi le debolezze) ma anche la difficoltà di vivere con un genitore che durante la vecchiaia si scontra con malattie di un certo spessore. L’ironia è una chiave per vivere e affrontare questi momenti anche nella vita reale?
Certe vicende puoi decidere di raccontarle secondo commedia o secondo tragedia. Del rapporto tra Chiara e Massimo, i protagonisti del romanzo, mi interessava sviscerare il reciproco senso di estraneità, la follia e al tempo stesso la tenerezza. Narrare tutto questo attraverso le corde tragiche sarebbe stato più scontato e banale, perchè la patologia già chiama un certo tipo di racconto. Al solito mi complico la vita usando il tono di voce contrario che, certo, serve anche a sdrammatizzare il dramma in cui volutamente immergo i miei personaggi. Poi sta a loro trovare la capacità di uscirne.

Per concludere, proviamo a essere sinceri: qualcosa di positivo i milanesi l’avranno anche, vero? Qual è la loro cosa bella secondo te?
Sono stato adottato da Milano anni fa, pur avendo avuto un battesimo mica male. Il mio primo anno d’affitto l’ho pagato a un tizio che teneva a ricordarmi che la mia regione di provenienza, la Puglia, era vicina all’Albania. Capii subito d’essere il benvenuto. Per fortuna Milano è molto più grande di quella testa: è una città accogliente e finalmente cosmopolita. E poi è la patria della cotoletta, il mio piatto preferito da quando ero alto così. Non potrebbe esserci regalo migliore per un ex ragazzino come me, cresciuto alle porte dell’Albania.

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